A. PETRINI: Del Teatro Barbarico

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1320 iscritti / anno IV,  n ° 18 / gennaio 2005


Alfio PetriniAlfio PETRINI: Del Teatro Barbarico

Pubblichiamo con vivo piacere il saggio di Alfio Petrini: autore, drammaturgo, regista, direttore del Centro Nazionale di Drammaturgia e dello Stage a distanza di Drammaturgia, nell’ambito del progetto Scuola d’Arte Teatro Totale; il saggio è già apparso sulla prestigiosa rivista di arti visive DOC(K)S.

L’articolo prende “in considerazione alcune grandi tradizioni del Novecento – quelle rappresentate dalle “azioni fisiche” di Stanislavskij; dal “mimo corporeo” di Decroux, con particolare riferimento alla teoria sul tronco; dall’ ”azione crudele” di Artaud; dal training di Grotowski, che ha sempre riconosciuto il debito verso Stanislavskij, e di Barba -, non per proporre una formazione fondata sull’aggregazione di queste tradizioni, ognuna in sé completa e coerente, e neppure per tentare una generica quanto impossibile azione di sintesi delle tradizioni stesse, ma per delineare un orizzonte del fare teatro, attivo e presente, che abbia come elemento unificante la ricerca delle modalità di produzione scenica dei linguaggi a matrice fisica”.

Ringraziamo Alfio Petrini per averci concesso la pubblicazione del suo saggio.

Buona Lettura



PETRINI: Del Teatro Barbarico

La rivoluzione teatrale del Novecento, eliminando la “pedagogia diffusa” – tipica dell’Ottocento -, secondo la quale l’attore apprende per contatto, ha reso impraticabile la formazione dell’attore articolata per materie, sulla quale tuttavia si attardano le scuole pubbliche e private del terzo millennio. I motivi dell’impraticabilità sono fondamentalmente due: primo, se manca  l’ambiente di riferimento delle famiglie d’arte, le materie non trovano più un’organica integrazione; secondo, la pratica per materie ignora l’uomo totale, plurale e indivisibile: separa ciò che invece deve essere considerato in modo organico e unitario.

      Prendo in considerazione alcune grandi tradizioni del Novecento – quelle rappresentate dalle “azioni fisiche” di Stanislavskij; dal “mimo corporeo” di Decroux, con particolare riferimento alla teoria sul tronco; dall’ ”azione crudele” di Artaud; dal training di Grotowski, che ha sempre riconosciuto il debito verso Stanislavskij, e di Barba -, non per proporre una formazione fondata sull’aggregazione di queste tradizioni, ognuna in sé completa e coerente, e neppure per tentare una generica quanto impossibile azione di sintesi delle tradizioni stesse, ma per delineare un orizzonte del fare teatro, attivo e presente, che abbia come elemento unificante la ricerca delle modalità di produzione scenica dei linguaggi a matrice fisica. Un ambito che ha visto  impegnati gli artisti e i ricercatori appena citati, (ma anche Craig, Appia,  Mejerchol’d, Schemmer, Fuchs ed altri, che in questa sede, però, m’interessano molto di meno ) “accomunati – come precisa De Marinis – dalla esigenza di bandire dall’uso teatrale (extra-quotidiano ) del corpo umano la facile spontaneità e la narcisistica e disordinata esibizione delle emozioni, per sottoporre l’espressione corporea ad un duro lavoro di disciplinamento e di artificializzazione formali che la depuri dagli elementi contingenti e accidentali, relativi alla vita passionale dell’individuo, e la metta in grado – così spersonalizzata – di cogliere l’intima essenza di un fenomeno, di svelare le verità profonde della vita interiore”.

     Perché parto da alcuni grumi tematici che fanno parte del patrimonio dell’attore del Novecento – peraltro largamente inutilizzato – per lanciare l’idea del teatro barbarico riguardante fondamentalmente la scrittura drammaturgica e di rimbalzo la scrittura scenica nella prospettiva del teatro totale? Perché  l’attore, elemento cardine del processo di formalizzazione, ha la funzione d’incarnare il personaggio: perché il personaggio è definito e caratterizzato dalle azioni fisiche compiute nello spazio scenico: perché le azioni fisiche sono messe in preventivo dal drammaturgo nella fase dell’azione combinatoria di segni verbali e non verbali per   prefigurare il come della scrittura scenica. Se il drammaturgo si chiede cosa fa il personaggio, non cosa dice – rispettando il movimento della creazione artistica che va dal fare al dire, dalla cosa al come, dal materiale all’immateriale, dal particolare al generale -, è evidente che metterà l’interprete nelle condizioni d’incarnare il personaggio fuori delle pastoie psicologiche e delle generiche emozioni individuali e di autogestire i processi vitali in funzione della produzione delle forme organiche. In altri termini, determinerà i presupposti fondamentali perché l’attore possa esercitare (per vie interne) la pratica autopedagogica indicata, opposta e contraria alla produzione dei moduli espressivi ripetitivi ottenuti (per via esterna) in conformità delle tecniche di recitazione.

      Le tecniche sono un vincolo o una liberazione? Presuppongono la dipendenza dell’interprete dal regista e/o dal coreografo, ignorano l’importanza decisiva delle facoltà, non consentono al pensiero di farsi sangue e quindi sono responsabili della fissità delle forme. Le tecniche sono importanti, se prima si apprendono e poi si dimenticano.

       Credo che la ricerca teatrale debba prevedere un ritorno ai primordi e che per realizzare questo nostos sia necessario tendere ad accamparsi prima della grazia, della musica, della danza, della parola, lavorando nella prospettiva di quelle geometrie del caos alle quali mi sento di ancorare il rinnovamento dello spettacolo dal vivo e che ritengo conseguibili soltanto con quel “duro lavoro di disciplinamento e di artificializzazione formali” cui ho fatto riferimento.

      Ogni volta che vado a teatro coltivo il presentimento di un’irruzione, la speranza di un segnale di svolta rispetto al predominio del dato cognitivo e delle tecniche. Mi aspetto che il sangue risponda al pensiero e che il pensiero risponda al sangue. Auspico che gli artisti marcino come guerrieri alla ricerca delle forme organiche e attraversino il campo barbarico dell’atto totale della creazione artistica, utilizzando l’istinto, il tronco e il soffio leggero dei processi vitali. Nella maggior parte dei casi le attese tradite sono occupate da cogitazioni insipide, distinte di sentimenti, descrizioni di fatti e di psicologie, sequele di estetismi, rituali esangui e prevedibili, processi di formalizzazione senza fascino, senza mistero, senza valore poetico: proposte così legate alla realtà contingente da essere bruciate dalla cronaca o così algide da non avere in sé la forza di donare l’ombra di un’emozione e ancor meno di durare nel tempo.

     Il corpo come spazio scenico – utilizzato con approcci e risultati diversi, tanto per fare alcuni esempi, da Yann Marussich ( “Bleu provisoire” ), Lara Martelli (“For sale” )  e Marie-Anne Michel ( Kaiser les Anges et tenter le Diable ) – chiarisce il compito fondamentale dell’interprete che consiste nel realizzare, in alternativa ai processi di astrazione, l’atto totale della creazione artistica, il quale implica il passaggio dal corpo muto al corpo vivo dell’artista, portatore d’idee umbratili. Definisce inoltre la consequenzialità dell’atto finale, che muove oltre la carica deduttiva dei sensi in un luogo senza limiti e senza forma, riempito di segni, dove la parola tace e dove parlano invece tutte le cose del mondo interiore, che è infinito. In questo luogo, i punti neri, i buchi, i semi di una rosa divorata dai bruchi sono capaci di generare una nuova rosa, cioè una nuova vita, che rivive e rifiorisce, e non si sa come. Nello spazio senza limiti – com’è senza limiti l’eros, il desiderio dell’altro -, il pensiero tende a farsi sangue, portando con sé anche l’odore di quel sangue.

     Non è vero che il movimento del pensiero si manifesti attraverso la parola e il movimento del desiderio attraverso il corpo dell’interprete. Perché la parola è corpo. Perché il teatro è corpo. L’ipotesi di separazione dei due movimenti è avventata e pericolosa, funzionale al predominio del dato cognitivo sul dato percettivo, foriera della distruzione dell’energia vitale e della eliminazione del mistero, negatrice della leggerezza del corpo antitetica alla pesantezza della carne.

     Il logos attraversa le viscere, il ventre, il cuore. Si espande in tutto il corpo per essere spinto oltre il suo stesso confine, dove la materia invadente rende possibile nel suo divenire la fuoriuscita della parte nascosta che aspira alla produzione di senso. L’energia prodotta spinge verso la spazialità degli oggetti e la produzione di linguaggio estensivo, lasciando sopravvivere la razionalità necessaria all’autogestione del processo vitale.  Ma il corpo è fatto anche di sudore, sapori, odori, saliva, escrementi, sperma, sangue, ferita, sesso – che derivano dalle parti che formano il tutto -, costituendosi così come pluralità di segni, come generatore di tante parole e di nessuna parola. Il corpo rimanda alla creazione artistica come atto erotico, essendo l’erotismo – per dirla con Bataille – “l’approvazione della vita fin dentro la morte” ed essendo l’uomo – per dirla con Rella – “totalmente sessuato”. “Ma se la sessualità – per dirla con le parole d’Ildegarde – è ciò che costituisce l’umano, anche lo spirito è sessuato…fiorisce nel corpo (in lumbis rationalitas floret) ”.

     Il corpo erotico della ricreazione è libero da ogni condizionamento etico, politico, religioso e ideologico. Porta con sé il soffio della carezza e la paura del naufragio, la dolcezza dell’abbraccio e la violenza del sesso, il piacere e l’orrore sublime della morte. Il corpo erotico non è terra senza cielo. E’ il ventre della terra che sale verso il cielo appeso al filo celeste. E’ contenuto e contenitore del viaggio. E’ transito che si fa esperienza umana ricca di promesse. E’ luogo dell’imprevisto, dove sfrigola tutto ciò che è buono per comunicare. Negare il corpo, significa negare la sessualità di ogni sua parte, ignorare la “carnalità dell’anima”, escludere la possibilità di sfiorare il dio della selva.

     La ragione ha ucciso il corpo, il corpo ha ucciso l’anima: l’anima non canta più. Nella società materialistica contemporanea il logos della parola è in grado di dare una risposta al sapere, ma resta muto di fronte al non-sapere, che è metà della sapienza e dell’esperienza umana. Se s’ignora la cultura e la natura duale, l’uomo cessa di essere un individuo plurale e indivisibile. Se si nega il pensiero del corpo, il piacere diventa edonismo. Se si trascura la centralità dell’eros, l’opera diventa algida. Se si lavora sui processi di astrazione e sulle tecniche, si producono forme morte, che non amano, non possiedono, non coinvolgono lo spettatore. La “meccanica” della creazione artistica si configura come manovra che crea un’alleanza tra razionale e sensibile.

      Se è vero che non c’è dissolutezza peggiore del pensare, pensare alla riducibilità dei valori opposti e contrari significa procurare nell’ambito della scrittura drammaturgica e di rimbalzo della scrittura scenica un danno ancora più grande: una perdita in termini di spessore, di fascino e di valore aggiunto poetico. Non c’è errore più grave del separare il nero dal bianco, il vero dal falso, il buono dal cattivo. Bulgakov scriveva perché nel suo paese il sì era stato separato e diviso dal no. Scriveva perché la ragione armata aveva stabilito che lì c’era la luce e che altrove c’era l’ombra: aveva decretato che lì c’era il bene, c’era il meglio, da aggiungere, da affermare coattivamente per essere vincitore sull’altro. Scriveva perché quell’orrore non aveva limiti.

     “La luce è tenebra quando è solo luce”. Le parole di Rella ci mettono in guardia dalla metafisica della luce che, infettando l’opera, la rende non credibile, e in tempi brevi la condanna all’oblio. Su questo tema Lukàcs sostiene che la “ragione decisiva per cui un’opera conserva una efficacia permanente mentre l’altra invecchia è che l’una coglie gli orientamenti e le proporzioni essenziali dello sviluppo storico mentre l’altra non vi riesce”, e lo dice dalla sponda ideologica che collega la transitorietà dell’arte alle sorti positive e progressive della storia. Si tratta di una tesi che suscita dissenso sulla sponda opposta – antideologica, ma non per questo fuori della storia umana -, dove si sostiene che l’opera possa durare nel tempo, e parlare al cuore e alla mente degli uomini, soltanto se il valore universale scaturisce da una trama di opposizioni intime, violente e inconciliabili; dal partito preso, che nega la neutralità della cultura; dalla pluralità del linguaggio e dal comportamento poetico dell’autore. Insomma, da una serie di fattori. L’opera dura nel tempo quando si pone nel suo divenire “non come un altro mondo – suggerisce Blanchot -, ma come l’altro di ogni mondo, ciò che è sempre altro dal mondo”.

    La scorporizzazione dell’idea è un progetto che risale a Plotino e che perdura nel tempo, purtroppo. Basta guardarsi attorno per accorgersi quanto la cognizione del mondo prevalga sulla percezione del mondo e come il corpo desacralizzato sia sperperato in nome di false verità e di false libertà. Sotto l’influenza di verità codificate, artisti criminali separano il pensiero della mente dal pensiero del corpo, finendo per radere al suolo la selva primordiale e innalzare sulle sue rovine cattedrali di vento, dove moda e superficialità gridano vittoria per nascondere la tragedia delle forme nate morte.

     Mai opporsi al proprio opposto. Dio ha abbandonato il mondo e si è rifugiato dentro di noi, ma non esiste una teoria o una tecnica che possa insegnarci a trovarlo in quattro e quattr’otto. L’unica possibilità risiede nell’abbraccio, che presuppone il possesso di facoltà straordinarie. L’abbraccio è il confronto con mondi strutturati che non conosciamo e che riconosciamo come altri. Questi mondi entrano in noi e noi entriamo in questi mondi, trasformandoli nel corpo linguistico e semantico dell’opera.

      Una creazione artistica può prescindere dal diventare? L’opera d’arte esiste nel suo divenire, attraverso il perfezionamento continuo dell’azione combinatoria dei segni e della distillazione della forma, fino all’esattezza finale. Il diventare attiene alla dilatazione dell’anima. Da anima individuale diventa anima del mondo. Diventare pietra, diventare albero, imparare il linguaggio degli animali – come suggeriscono alcune favole – non è una punizione, ma una amplificazione dell’anima.

     Anche il valore poetico dell’opera è una questione legata al destino delle cose. Quando si ammala la terra, anche il cielo si ammala. Su questo dato bisogna concentrare l’esperienza e su questo dato, soprattutto, bisogna scaricare una sorta di violenza, che non manifesta direttamente contenuti psichici e immaginari, ma tende a ricreare la realtà attraverso la combinazione di segni, l’errore nascosto sotto la cancellatura, la percezione dell’orrore radicato nelle interiora e nelle interiorità profonde della natura umana, filtrati dal comportamento poetico dell’artista

       I drammaturghi, come tutti gli esseri umani, si sentono buoni. Hanno buone idee,  buoni sentimenti, buon senso, buone maniere e buone intenzioni. Ma tutto questo non serve. Non serve al teatro la civiltà dei teatranti, così come non serve alla comunità nazionale la civiltà di un paese che ha comunicazioni di massa senza comunicazione, opere di socializzazione con poca solidarietà e molte solitudini, sviluppo tecnologico e scientifico che non coincide con un reale progresso umano. Gli scrittori, volendo cambiare il mondo, massacrano il teatro, cioè lo impoveriscono.

        Di verità e di civiltà si muore!

        Beckett e Shakespeare non sono meno civili dell’ultimo autore civile di successo. Ben vengano allora i cattivi pensieri e i cattivi sentimenti. I nostri cattivi pensieri e i nostri cattivi sentimenti. Invece di tenerli nascosti per paura o per vergogna, mettiamoli in preventivo nelle nostre scritture drammaturgiche, suffragati dall’orrore e dallo stupore del disvelamento. Accettiamo la condizione di naufraghi senza sponde e le difficoltà dei passaggi, delle maree, degli attraversamenti che ne derivano. Ascoltiamo l’istinto e le pulsioni che, attraverso le azioni fisiche, producono pensiero. Poniamo al centro dei nostri racconti il disagio e l’emarginazione sociale, se lo vogliamo, ma non dimentichiamoci che oltre ai campi barbarici di ciò che è altro da noi esistono i campi barbarici di ciò che è altro di noi. Con due vantaggi: una maggiore credibilità e la esclusione del didatticismo. E’ della nostra natura e della nostra cultura, vergognose e incivili; è di ciò che sta in odore di eresia; è nell’ambito del dicibile/indicibile, del visibile/invisibile, del palpabile/impalpabile che dobbiamo scandagliare, se vogliamo fare qualcosa di utile per il rinnovamento delle forme teatrali.

     Macché! Invece di ricreare la realtà, cerchiamo di doppiarla. Invece di rappresentare i fatti, li descriviamo. Invece di disvelarci, ci mascheriamo. Invece di essere, cerchiamo di apparire. Invece di stimolare, lanciamo messaggi che suonano come ordini. Invece di creare veli, spieghiamo. Invece di esprimerci, chiacchieriamo. Invece di rimembrare, ragioniamo. Invece di produrre coscienza critica, facciamo didattica. Invece di dare forma alla sostanza, produciamo estetismi. Invece di praticare il partito preso nel quadro di riferimento della irriducibilità degli opposti, ci aggrappiamo all’assoluto ideologico.  Insomma, o siamo artisti o non siamo artisti. Gli artisti non hanno niente da insegnare e molto da imparare.

     Il teatro civile – una delle forme di teatro mimetico – con i suoi schemi e contorni rigidi non consente trasgressioni. Non suscita scandalo. Non produce mistero.  Si nutre di buon senso e provoca effetti mortali. Volendo edificare, conserva.  Volendo creare, distrugge. Volendo cambiare il mondo, lo conserva, perpetuandone le forme di comunicazione. Inseguendo la luce, crea il buio. Volendo dire la verità, la nega. Volendo coinvolgere, respinge. Volendo convincere, non possiede. E per fare questo di chi si serve? Di attori succubi, adibiti alla pedissequa trasformazione della parola scritta in parola parlata, perché privi delle abilità necessarie ad esercitare fattualmente l’autopedagogia come autogestione dei processi vitali. Non avendo le capacità per competere con la supremazia del regista, perdono inconsapevolmente la possibilità di essere coautori dello spettacolo dal vivo.

     Bisogna tornare alle origini. Disconoscere il teatro come un’arte pragmatica, abbandonare i vincoli che impediscono all’individuo di manifestarsi in modo totale, concretizzare il nostos nei campi barbarici delle azioni fisiche poste in posizione di centralità assoluta, perché sono le azioni fisiche – con il loro implicito carico di nascosto e di misterioso -, a caratterizzare i personaggi e non il carattere dei personaggi a determinare le azioni fisiche.

     Teoria e prassi del teatro barbarico non si affidano alle virtù miracolose dell’inconscio o alle soluzioni epidermiche della ragione, ma all’operosità di una specie umana assai rara: quella dei sognatori, dei visionari, dei pazzi luminosi che si sono lasciati il mondo alle spalle per l’incapacità a stargli dietro. Non sono persone al singolare, ma al plurale. Non sono alchimisti di forme teatrali o di stilemi coreografici, ma chimici della pluralità del linguaggio. Uomini che sanno di dover credere per vedere e non vedere per credere.  Uomini che non hanno bisogno del paraurti del tempo per vedere. Che sono in grado d’immaginare e di accettare tutto ciò che è nuovo e sconosciuto. Che non impazziscono senza quel paraurti, ma che impazzirebbero se non lo facessero a pezzi prima d’intraprendere il viaggio di ritorno con il bagaglio di alcune consapevolezze effimere: il primo passo è quello che conta; il naufrago e la marea sono un’unica cosa; la rotta è un continuo divenire che va continuamente verificato. Si tratta di uomini in possesso di un’integrità che li tiene lontani dalle mode e che li salva allo stesso tempo dall’entrare in odore di santità. L’integrità di uomini che sono in grado di sognare e di progettare l’impossibile, attribuendogli concretezza nei labirinti di senso. L’integrità di uomini che sono diventati individui e d’individui che pongono l’integrità e l’unicità a fondamento della loro condizione e a completamento delle loro straordinarie facoltà. Lo spettacolo dal vivo non ha bisogno di drammaturghi, attori, registi o danzatori: ha bisogno di uomini, plurali e indivisibili. Per diventare uomini bisogna imparare a disimparare.

     Altro che stage di perfezionamento!

     Ci vorrebbero corsi permanenti di libertà e d’integrità. Questo dovrebbe essere il progetto per l’università del futuro. Un progetto di formazione fondata sulla pratica dell’alleggerimento. Per preparare i futuri sognatori, gli uomini visionari, i pensatori indipendenti bisogna alleggerirli. Occorre aiutarli ad eliminare vecchie strutture, stratificazioni d’ignoranza, concetti arrugginiti, idee obsolete, preconcetti, falsi sentimenti, paure immaginarie, ossequi alla superficie. Occorre aiutarli ad evitare paludi ideologiche, grammatiche della metafisica, domini irragionevoli della ragione, dipendenze da antiche e nuove divinità tecnologiche usate come fini e non strumenti della comunicazione. Abbiamo bisogno di uomini liberati dai legami dell’egoità, interessati a scoprire l’illusione di agire, d’investigare, senza pretendere di trasformare la contesa in vittoria. Un’illusione che non ha alcuna valenza morale o ideologica, che fa sentire l’artista su un piano di eccezionalità umana, nel preciso momento in cui attraversa le cose con indomabile stupore e pone la condizione del partito preso alla base del valore etico universale. Allora, quando questo valore si determina, genera nuove indeterminazioni. Quando fa previsioni, insinua l’imprevedibile. Quando propone il disvelamento, coglie il misterioso e l’inatteso. ( Alfio Petrini )

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