Franco PERRELLI: IBSEN femminista ?

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1500 iscritti / anno VI,  n ° 33 / maggio/giugno 2007


IbsenFranco PERRELLI: Ibsen femminista ?

..Nel 1879, Ibsen sostenne al Circolo Scandinavo di Roma la parità fra i sessi, paragonando donne e giovani al «vero artista», e…nel 1884, sottoscrisse…una petizione liberale per un’equa divisione dei beni nel matrimonio.

E’ questo aspetto, l’ “Ibsen femminista”, che indaga questo estratto da Henrik Ibsen, un profilo, Franco Perrelli, Edizioni di Pagina, 2006, e che siamo lieti di pubblicare.

Nel 2006 cadeva il centenario della morte di Ibsen, celebrato in tutto il mondo con grande rilievo, essendo il drammaturgo norvegese – dopo Shakespeare – l’autore più rappresentato in teatro. In questo rapido ma esauriente “profilo” l’opera teatrale di Ibsen emerge quale vertiginosa quanto aperta interrogazione alla coscienza moderna sul «disagio della civiltà», il cui senso si realizza compiutamente solo nella risposta individuale e creativa del lettore-spettatore. Non si spiega altrimenti tanta pregnante attualità e persistente luminosità poetica di queste favole borghesi, al di là del loro ben individuato (e anche limitato) orizzonte storico e culturale.

Ringraziamo il Prof Franco PERRELLI e le Edizioni di Pagina, nella persona della Sig.ra Floriana Lobascio, per il permesso alla pubblicazione.

Buona Lettura



 Franco PERRELLI: Ibsen femminista ? 

Negli anni Settanta-Ottanta la «questione femminile», in Scandinavia aperta almeno dalla metà dell’Ottocento, divenne bruciante. Georg Brandes nel 1869 aveva tradotto il saggio di Stuart Mill, Sulla soggezione della donna, ma il problema toccò Ibsen probabilmente di più attraverso i contatti con la scrittrice femminista Camilla Collett nonché per lo scalpore suscitato dall’attività intellettuale di Asta Hansteen (il modello di Lona Hessel). Si sa che, nel 1879, Ibsen sostenne al Circolo Scandinavo di Roma la parità fra i sessi, paragonando donne e giovani al «vero artista», e che, nel 1884, sottoscrisse con Bjørnson, Lie e Kielland una petizione liberale per un’equa divisione dei beni nel matrimonio.

Ciò detto, quantunque oggi molto più abilmente rappresentata, l’immagine convenzionale di un Ibsen femminista è in senso proprio uno stereotipo, perché il norvegese, «autore di nessun temperamento femmineo», come notava Brandes, ebbe solo sintonie esteriori con il problema dell’emancipazione della donna; sintonie deter­minate dal suo oggettivo «vincolo con il tempo», ma che non fanno in alcun modo dei Pilastri della società, di Casa di bambola o Spettri opere di tendenza. «Tutto ciò che ho scritto», preciserà anzi l’autore, «si è collocato al di là di ogni cosciente letteratura di propaganda» [15: 417].

Certo, come affermava nel 1882, egli si rendeva conto che «ai nostri tempi ogni nuova opera ha il dovere di spostare i pali di confine» [IÅ: 265], ma poi sfuggiva il nocciolo politico-formale delle questioni d’attualità e, per esempio, nel luglio 1879, discutendo con Bjørnson di una bandiera che distinguesse la Norvegia dalla Svezia, affer­mava che il problema non stava né nei simboli né nell’in­dipendenza dello stato, bensì essenzialmente nel «risveglio alla libertà» degli individui schiacciati dai retaggi cultu­rali del passato. In questi anni, con spirito quasi illuministico, egli insiste sulla necessità di attaccare «i contorcimenti medievali» [17: 355 ss.], spingendosi perfino, in una lettera dell’84, a tracciare un programma democratico, che non dimentica le donne:

Le riforme non sono regalate da chi detiene i privilegi, devono essere conquistate […]. Se le cose andassero in patria come dico io, tutti i non privilegiati dovrebbero unirsi e costituire un partito forte risoluto e avanzato, il cui programma dovrebbe fondarsi esclusivamente su riforme pratiche ed efficaci, su un ampio allargamento del suffragio, la soluzione della questione femminile, la liberazione dell’istruzione pubblica da ogni sorta di retaggio medievale ecc. [18: 16-7]

È chiaro, tuttavia, che, con il suo «se le cose andassero come dico io», Ibsen resta alieno da fattuali categorie politiche, affascinato poeticamente invece dall’oscuro sforzo cosmico, per contraddizioni e differenze, verso l’identità e la libertà. Questo quantomeno registrano i suoi dram­mi definiti, con qualche arbitrio, «sociali». Interessante è una lettera del settembre 1877, relativa a I pilastri della società, che Ibsen indirizza a re Oscar II, una delle tante amicizie coronate che il poeta anarchico comunque amava coltivare. In questa missiva, lo scrittore formula con chia­rezza una poetica che, a parte gli ovvi motivi di opportu­nità, visto l’augusto interlocutore, appare molto sentita:

Ho creduto utile indicare che la falsità non sta nelle istituzioni, ma nell’individuo sociale stesso; che sono l’interiorità umana, la vita dell’anima, che devono essere purificate ed emancipate; che non sono le libertà esteriori che vanno perseguite bensì la personale spirituale liberazione e che ciò può solo essere acquisito e fatto proprio dall’uomo stesso con una condotta nello spirito di verità. Tutto questo non è diretta­mente espresso in nessun luogo del libro, ma è mia speranza che il lettore capisca da sé e si appropri di tale idea, che è il fulcro della mia poetica [IÅ: 218].

Presentando I pilastri, Ibsen delinea quindi un’opera come Lehrstück, dramma didattico, mirato sulla coscienza del pubblico e incentrato sulla «vita dell’anima», sul rapporto fra esistenza e spirito. Non altro sono del resto Casa di bambola e Spettri. In quest’ultimo, non a caso, il proposito di attacco contro «tutto il cupo medioevo monastico, che rimpicciolisce la riflessione e rincretinisce l’intelletto» [17: 374-5] non si fa programma, ma complessa dialettica metaforica e poetica, che si rivela con pienezza in una celebre battuta della signora Alving:

Io credo che quasi tutti siamo degli spettri. Non è solo ciò che abbiamo ereditato dai genitori che riappare in noi. Ma ogni genere d’ idee vecchie morte ed altrettanto vecchie morte credenze. Ciò non vive in noi, ma lo stesso vi permane e non possiamo liberarcene. Basta prendere in mano un gior­nale e leggerlo; ecco gli spettri sgusciare tra le righe. In questo paese devono sussistere spettri ovunque. Devono essere fitti come la rena, credo. E per questo abbiamo tutti una così pietosa paura della luce. [9: 92].

Come fulcro di Spettri, Ibsen ripropone quindi la tensione fra l’elemento d’ombra, «il cadavere nella stiva», il fantasma del passato, e la luce della «gioia di vivere», di Helios, proiettati sullo sfondo incerto del travaglio degli uomini verso un nuovo equilibrio, verso un «terzo regno».

Con tali presupposti, il 26 maggio 1898, in un discorso di fronte alla Lega delle Donne Norvegesi, Ibsen non ebbe difficoltà a dichiararsi «più poeta e meno filosofo sociale», respingendo «l’onore di avere consapevolmente lavorato per la causa femminile. Peraltro non mi è chiaro che cosa sia propriamente questa causa. Per me, essa si è posta come una causa dell’umanità. E se si leggono i miei libri con attenzione lo si capisce […]. Mio fine è stato la descrizione di esseri umani». Nella stessa circostanza, egli trasmise alle donne un messaggio dietro il quale faceva intravedere una severa logica educativa ed evolutiva in senso lato: «Sta alle madri, con lavoro indefesso e lento, suscitare un consapevole senso di cultura e di disciplina. Si deve far nascere questo negli uomini prima di poter elevare ulteriormente il Popolo» [15: 417-8].

Più che femminismo, c’è in queste parole un vago tratto eugenetico che rimanda peraltro a un inciso degli abbozzi di Spettri, dove la condizione della donna e la denuncia della sua subalternità si trasfigurano in un problema della specie: «Queste donne d’oggi: calpestate come figlie, come sorelle, come mogli, non educate secondo le loro qualità, ostacolate nel seguire le proprie vocazioni, private del proprio patrimo­nio inasprite nell’animo – e così avremo le madri della nuova generazione. Qual è il risultato?» [9: 136].

La questione femminile, in Ibsen, trae, come ogni altra, occasionali spunti dall’attualità, ma s’inquadra in un’amplissima scala universale. Fra le note di Hedda Gabler, si legge della «donna come minatore» [11: 511], della donna cioè come essere che ha più intenso rapporto con le profondità, le scaturigini stesse della vita, della psiche, del cosmo storico-sociale. Questa peculiarità autentica non è in sé gratificante nel quadro della civilizzazione cristiana, borghese ed essenzialmente maschile, anzi finisce per essere drammaticamente dinamica e dialettica nei confronti di essa, dei suoi valori e del sistema delle relazioni umane. Ibsen è il poeta di questo conflitto cosmico.

IBSEN: Casa di bambola.

Casa di bambola è un dramma ispirato a una storia vera, della quale Ibsen era venuto a conoscenza fra il 1876 e il 1878. Al 19 ottobre di quest’anno risalgono le Note per la tragedia moderna [Optegnelser til nutids­tragedien] che stanno alla base dell’opera e non si presentano affatto come un insieme naturalistico di dettagli, ben­sì in forma di squadrata tipizzazione del tema, ricondotto a principi e polarità: «Ci sono due generi di legge spirituale, due generi di co­scienza, uno nell’uomo e un altro, del tutto differente, nella donna. Essi non si capiscono, ma nella vita pratica la donna è giudicata dalla legge dell’uomo, come se lei non fosse una donna bensì un uomo».

Ciò che interessa Ibsen non è tanto un problema di parità quanto d’identità, ovvero che «una donna non pos­sa essere se stessa nella società attuale». Quindi, individua il nocciolo d’uno degli intrecci più famosi della storia del teatro: «Lei ha commesso un falso e ne è orgogliosa, perché l’ha fatto per amore di suo marito, per salvargli la vita. Ma questo marito con i suoi principi banali di onorabilità è dalla parte della legge e considera la faccenda con occhi maschili».

La «legge», l’«autorità» sono gli elementi di con­fusione profonda che sovrastano la protagonista del dram­ma, del quale le note anticipano l’ansiosa temperatura: «Disperazione, lotta, rovina» [8: 368-9], che nel testo Ibsen esalta in una scrittura pulsante, quasi ritmica, che non disdegna i monologhi (John Northam ne ha contati ben sette) e in un finale che è poderosamente conturbante.

Certo Casa di bambola deve alquanto alla drammaturgia di Bjørnson e, prima ancora, al modello hebbeliano di tragedia borghese (Maria Magdalena); il critico francese Francisque Sarcey vi trovava, a suo tempo, Scribe e Sardou, ma, vero o falso che sia, l’opera fa dimenticare tutti gli eventuali influssi e, specie per lo sviluppo molto maturo della tecnica retrospettiva, si colloca nel panorama del dramma moderno con un suo inconfondibile rilievo.

La vivida Nora ha contratto un prestito dall’equivoco Krogstad, falsificando una firma, per salvare il marito, l’avvocato Helmer, in precarie condizioni di salute. Helmer, apparentemente uomo di solidi principi borghesi (sapremo però che a suo tempo ha chiuso un occhio su certe irregolarità del suocero) e non privo di una certa raffinatezza, è all’oscuro di tutto; Nora, peraltro, con grandi sacrifici, sta ormai per saldare il debito. Casa di bambola si apre all’insegna di questo sentimento di scam­pato pericolo e di nuova prosperità, che deriva dalla no­mina dell’avvocato a direttore di banca; in una calda atmosfera di festa, simboleggiata da un albero di Natale che ritroveremo infine miseramente spoglio.

Fra i subalterni del neodirettore c’è però proprio Krogstad, che dovrebbe essere licenziato, e da ciò nasce il ricatto su Nora, la cui angoscia lambisce i confini del suicidio. Nella sua disperazione, il personaggio presenta diverse sfaccettature psicologiche: sospetta, per esempio, che la propria falsità possa in qualche modo «contagiare» i figli; con una goffa ingenuità, che rasenta la dabbenaggine (forse imputabile alla sua educazione), precipita sempre più la situa­zione difficile in cui si trova; soprattutto, la povera Nora inganna se stessa su Helmer, convinta com’è che si verifi­cherà la «cosa meravigliosa», la categoria kierkegaardiana dell’infatuazione erotica delle fanciulle, che cioè al mo­mento della rivelazione del misfatto il marito si assumerà le responsabilità di lei, che in fondo mai vorrebbe tanto.

Così Nora vive le sue angosce quasi in simbiosi ideale con il suo uomo e, in questo dramma della disillusione umana, la fine sarà per ciò tanto più amara. Dopo vari convulsi avvenimenti – in effetti non scevri della meccanica della pièce bien faite, ma pure di un fine gioco di corrispondenze, per cui il destino della protagonista si rifrange nella do­lente umanità degli altri personaggi – anche se Krogstad si riconcilia con la vita attraverso l’amore di una cono­scente di Nora, la signora Linde, e il ricatto cade, la verità viene comunque a galla. È proprio la signora Linde a far affiorare la cosa perché quella coppia di amici «non resti legata a tante menzogne e sotterfugi» [8: 341], ma, come spesso in Ibsen, la ventà ha un effetto deflagrante.

Helmer al principio, spaventato dalla situazione, si rivela insensibile e inveisce contro la moglie: «Hai ereditato tutta la dissipatezza di tuo padre. Niente religione, niente morale, niente senso del dovere […]. Da oggi non vale più la felicità, vale solo salvare il resto, i cocci, l’apparenza» [8: 353]. Egli vuole sottrarle l’educazione dei figli e fare della loro unione una facciata. Poi con la remissione della cam­biale la perdona, ma Nora decide di abbandonate lo stes­so il marito e i bambini: «Devo pensare a educare me stessa», afferma. «Tu non sei l’uomo che può aiutarmi. Devo pensare da sola. E per questo ti lascio» [8: 358].

In un colloquio statico, anzi «una resa dei conti», che però ha la forza dinamica di un pensiero ribelle che mira a scalzare, come una «bomba», le fondamenta dell’«Arca» ovvero della costruzione ideale cristiano-borghese del mondo, Nora denuncia il matrimonio come «un passaggio dalle mani di un genitore a quelle di un marito». Helmer e il padre hanno «grandi colpe» verso di lei ovvero verso la sua identità: «Casa nostra non è stata altro che un luogo di giochi. E qui sono stata la tua consorte bambola come a casa ero la figlia bambola di papà. E i bambini sono stati anche loro le mie bambole [8: 357-8].

«Bambola» sta qui come un sé alienato e mascherato (cosa evidentissima tra l’altro proprio nelle scene che ruotano attorno al ballo in maschera dagli Stenborg), contro cui si avanza l’antica necessità ibseniana di una dura acquisizione dell’autenticità e dunque di «avere doveri verso se stessi» di crescita e di ricerca. Quando Helmer ribatte: «Sei prima di tutto moglie e madre», Nora replica: «Non lo credo più. Credo di essere prima di tutto un essere umano, io, come te – o, in ogni caso, devo cercare di diventarlo» [8: 359].

Quindi, cadono i conforti e la guida della religione e della morale, si fa tabula rasa di tutti i valori in una prospettiva che si potrebbe definire quasi nietzscheana di autonomia del soggetto, anche se il dramma si colora di un prevalente tono universale e utopico. La «cosa meravigliosa», cui miseramente Helmer contrappone l’onore, evolve e scatta concettualmente nella «cosa più meravi­gliosa»: «Io e te», dichiara Nota, «dovremo cambiare in modo tale che la nostra convivenza possa diventare un matrimonio» [8: 364]. A Helmer è lasciata la «speranza» della «cosa più meravigliosa», che non è certo l’accomodamento di una grave lite familiare, bensì la prospettiva di un «cambiamento» eventuale nel senso della delucidazione del sé, di una vera unione di corpo e di spirito fra il maschile e il femminile. Ancora una volta è in gioco la conciliazione fra i principi e la libera sensualità che, nell’uomo, è imprigionata nell’angusta sfera privata e nell’estetismo, mentre in Nora si esplica come natura, passione per il mare, tensione verso il Sud e, nella concitazione degli eventi, esplode persino come segno dionisiaco di contraddizione e paura nella famosa esotica tarantella, con la quale cerca di depistare Helmer dalla scoperta del suo segreto.

Nora lascia la casa, la famiglia, eppure anche questo netto traumatico finale è genialmente aperto: lo «sbattere del portone», che si ode al termine, lungi dal chiudere la vicenda, la rilancia: che succede dopo? Non è un caso che la sequela di continuazioni di Casa di bambola sia lunghissima e fantasiosa, a cominciare dal «canovaccio di variazione» che lo stesso Ibsen dovette elaborare per prevenire «la minaccia» di manipolazioni altrui e nel quale «Nora non abbandona la casa; Helmer invece la spinge verso la camera dei bambini» dove la donna s’accascia [19: 146], per terminare con più recenti rifacimenti come Cosa accadde dopo che Nora ebbe lasciato il marito. Ovvero: i pilastri della società dell’austriaca Elfriede Jelinek.

Casa di bambola può davvero definirsi un moderno Lehrstück dalle profonde e coinvolgenti implicazioni simboliche; qualcosa di nuovo e provocante nella drammaturgia, tanto che nel 1880, al direttore di un teatro viennese, Heinrich Laube, che riteneva che, per il suo finale, l’opera non rientrasse nel genere dello «skuespil» (nel senso tedesco di Schaus­piel), Ibsen poteva scrivere: «Ma davvero lei dà tanta importanza alle cosiddette categorie? Per parte mia, ritengo che le categorie drammatiche siano flessibili e debbano adattarsi alle situazioni presenti in letteratura, non il contrario» [17: 388].

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