Eugenio Barba: Grecia 2019

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Eugenio BarbaEUGENIO BARBA – Università del Peloponneso, Grecia 2019

DOMANDE DALLA MIA SECONDA VITA

“Tutti abbiamo due vite e la seconda comincia quando un giorno scopriamo di essere vecchi e di essere trattati come tali…Intorno a me è scomparso il mondo della mia gioventù. Mi guardo in giro e mi viene spontanea una domanda: l’andatura della vita, l’accelerazione del tempo e l’irruzione della tecnologia sono compatibili con il mio modo di immaginare, amare e realizzare il mio lavoro di regista, di specialista di tecnologia arcaica – l’essere umano?”

Siamo lieti di pubblicare il discorso tenuto da Eugenio Barba in occasione del conferimento del Dottorato h.c. dall’Università del Peloponneso, Grecia, il 3 luglio 2019.

Ringraziamo Eugenio BARBA per il permesso alla pubblicazione.



Eugenio BarbaEUGENIO BARBA – Università del Peloponneso, Grecia 2019

DOMANDE DALLA MIA SECONDA VITA

Discorso in occasione del conferimento del Dottorato h.c. dall’Università del Peloponneso, Grecia, il 3 luglio 2019.

Tutti abbiamo due vite e la seconda comincia quando un giorno scopriamo di essere vecchi e di essere trattati come tali. La nostra integrità fisica e la nostra identità sociale mutano radicalmente. La consapevolezza del momento presente, il sorriso di uno sconosciuto, il luminoso azzurro del cielo, l’incredulità dopo una notte senza dolori alle ossa rinnovano l’incantesimo della vita. Sono al centro del mio qui e ora.
Intorno a me è scomparso il mondo della mia gioventù. Mi guardo in giro e mi viene spontanea una domanda: l’andatura della vita, l’accelerazione del tempo e l’irruzione della tecnologia sono compatibili con il mio modo di immaginare, amare e realizzare il mio lavoro di regista, di specialista di tecnologia arcaica – l’essere umano?

Sento orgoglio e contentezza in questa ora di festa qui a Nafplio, in questa Università del Peloponneso così giovane e allo stesso tempo depositaria della saggezza di una cultura millenaria che mi ha profondamente marcato. Sento, però, anche qualcosa che rassomiglia all’ingiustizia. I meriti che mi vengono attribuiti e per i quali oggi ricevo il titolo onorifico di Dottore non possono essere il risultato di un solo individuo. Ho agito nel teatro, ovvero una disciplina artistica, un saper fare incorporato e un mestiere che può avvenire solo attraverso una stretta interazione tra individui diversi e con diverse competenze.
Tutto quello che so, che ho realizzato sulla scena, e che in seguito ho trasposto in parole sulla carta, lo devo ai miei attori, ai molti collaboratori le cui idee e capacità di realizzarle sfociavano in iniziative artistiche, e tante altre persone che spesso non avevano niente a che vedere con il teatro. In questo momento intorno a me vi è un intero popolo segreto di vivi e di morti, maestri che mai mi conobbero, spettatori che hanno solo immaginato i miei spettacoli, amici che non ho mai incontrato. Aspettano con curiosità di ascoltare le parole che sceglierò per ringraziarvi, aggirandomi ancora una volta intorno alle poche idee, o stelle polari, che hanno sempre guidato i miei passi.
L’Odin Teatret è un gruppo di teatro, ma anche un laboratorio teatrale radicato geograficamente a Holstebro, una cittadina provinciale danese. Costituiamo un ambiente di individui di numerose nazioni e lingue che nell’artigianato teatrale hanno trovato le radici di una patria professionale.
Molti parlano dell’Odin Teatret come di una leggenda. In che modo un teatro diventa una leggenda? Facendo ciò che, per un teatro, è impossibile fare nella nostra società.
I nostri 55 anni di attività con lo stesso nucleo di attori sono la prova che il teatro non si identifica solo con lo spettacolo. Il teatro può essere l’intesa tacita di individualisti che per motivi profondamente personali e con una disciplina artigianale condivisa esprimono la loro diversità in una forma di vita e di lavoro. La nostra identità come teatro è proteiforme: esperienze didattiche, imprese artistiche e iniziative di collaborazione che catalizzano e coinvolgono le numerose subculture della comunità in cui viviamo. Siamo riusciti ad infrangere le due leggi del DNA del teatro: l’obbligo economico di produrre spettacoli, e l’impossibilità di conservare per anni e anni lo stesso gruppo di attori. Creiamo cerimonie festive con i nostri spettatori “barattando” con loro espressioni culturali. Da quarant’anni ci dedichiamo a quello che ho chiamato antropologia teatrale, alla ricerca dei principi della pre-espressività dell’attore e della sua presenza scenica.
Il nostro consigliere letterario Nando Taviani afferma che l’Odin Teatret è essenzialmente politico. La dichiarazione che “il teatro sia politica con altri mezzi” non si riferisce solo ai contenuti dello spettacolo, alle storie e alle vicende che possono più o meno incidere sull’esperienza storica e sulla consapevolezza civile degli spettatori. Ingloba anche i modi come un teatro immagina e sviluppa la sua struttura di relazioni interne e di interazioni con l’esterno. Come si rinnova, come decide di agire, come realizza l’effetto di porsi al di fuori e andare contro corrente attraverso mezzi tecnici e artistici e le molteplici forme di relazioni che può creare. L’obiettivo è non lasciarsi ingoiare dallo spirito del tempo, dalle tendenze del mercato e mantenere un’identità di “straniero” attraverso la sorpresa e il valore di iniziative culturali nel cuore stesso della comunità frammentata in cui vive.
Oggi mi sento di affermare: il teatro è energia. Persisto con i miei attori a far fiorire spettacoli che non si lasciano comprendere nella loro interezza dagli spettatori perché non si indirizzano all’intelletto ma all’essere-in-vita. Energia è una parola scivolosa, un termine dai molti volti. Eppure basta prendere in braccio un neonato, stare accanto a una persona gravemente malata, posare le labbra su quelle di una donna o di un uomo, osservare un albero, una nuvola, un ragno affinché l’intero nostro essere percepisca un messaggio e reagisca. È un messaggio di energie che non si lascia verbalizzare, eppure lo sentiamo diretto specificamente a noi. Questo messaggio è un testo che decifriamo con il nostro intero organismo e le sue differenti memorie.
Questo processo cinestetico-gestuale e subliminale corrisponde a ritmi e a nature diverse di energia. Lo possiamo immaginare come il testo di una lingua che non ci è dato di intendere ma in cui noi tutti – attori e spettatori – possiamo identificarci organicamente, dinamicamente e ritmicamente. Esattamente come il poeta che si identifica con tutto se stesso in ogni parola che scrive, o il pittore la cui pennellata sulla tela coincide con l’energia delle sue necessità e della sua stirpe. “In ogni mia pennellata vi è il mio sangue mischiato a quello di mio padre” ha scritto Cezanne in una lettera.
Quando parlo di energia, di luminosità, di messaggi che decifriamo con il nostro sangue e le nostre cicatrici interiori, cosa voglio negare, contro chi o che mi oppongo? Sono solo un messaggero anche se non so al servizio di chi e non comprendo il senso del messaggio?

Una domanda che sorge dalla storia del teatro
Il teatro come noi oggi lo intendiamo è nato in Europa nel XVI secolo come attività commerciale con il solo fine del guadagno. Aveva la sua reale necessità solo per chi lo faceva, e che dagli spettatori cercava profitto e consenso. Era qualcosa di mercenario. Su questo teatro venale allungò i suoi tentacoli la letteratura. Gli attori mercenari la resero accessibile aggiungendovi l’attrazione dell’erotismo, della seduzione, del terrore e dello scherno.
Separatamente, si sviluppava il teatro degli amateurs. Poiché non dipendeva dall’ampiezza del consenso e della remunerazione degli spettatori, poteva essere più ardito. Compì, involontariamente, una rivoluzione copernicana: il teatro è necessario per chi lo fa, non solo per ragioni economiche, ma anche come necessità culturale e spirituale. Un’isola di libertà, per riassumerla in una formula semplice.
Questa rivoluzione copernicana venne assorbita nel ventesimo secolo dal teatro professionale nel suo commercio degli spettacoli. Quest’altra faccia della necessità del teatro era il segno di una sua nobilitazione. Gli attori venivano elevati al livello di artisti e intellettuali. Era ovvio, però, che applicata alle regole della professione, la rivoluzione copernicana nata nelle regioni dell’amatorismo era destinata al fallimento quando tentava di sopravvivere nella sfera economica del commercio degli spettacoli. Dette vita a imprese luminose che prima o poi si scontrarono con le leggi del mercato, e caddero in breve giro di anni. Trovò respiro e risorse quando iniziò l’era delle sovvenzioni e del mecenatismo diffuso, spesso di stato, regolamentato da apposite leggi. Quanto avrebbe vissuto, senza sovvenzioni, Stanislavski e il suo Teatro d’Arte di Mosca?
L’era delle sovvenzioni permise il fulgore del teatro del XX secolo, l’età d’oro della nostra professione. Oggi non è bizzarro vedere un attore premiato con il Nobel per la Letteratura, o decorato da lauree e dottorati honoris causa. Sono il segno tangibile d’una discriminazione finalmente superata. Dal punto di vista della storia della cultura è la caduta d’un preconcetto secolare. Dal punto di vista della storia dei teatri è la fine di un’era.
Questa fine coincide con il momento in cui il teatro, nel suo complesso, diventa un arcaico genere minoritario nell’universo delle forme spettacolari del nostro tempo.
Questo dato di fatto suscita una domanda: che ne sarà del teatro con la fine probabile delle sovvenzioni? Che ne sarà di questa potenziale isola di libertà, del suo rigore e impegno, della sua rivolta e rifiuto? Che ne sarà dei “giovani” che, dotati di sofisticate tecnologie, cercano il loro cammino e allontanandosi dalle illusioni e dagli ideali dei loro predecessori si inoltrano nelle regioni della siccità?
I vecchi hanno un vantaggio sui giovani: hanno vissuto più a lungo. Sanno che l’opera può essere effettuata solo operando. Fridtjov Nansen, riflettendo sulla sua vita, diceva: l’impossibile è solo il possibile che prende più tempo.

Domande dalla mia biografia professionale
Scomparirà tutto quello che ho fatto con la mia morte? Non ho che il mio corpo e le sue costellazioni interiori. Lì risiede quello che so di sapere e quello di cui non sono consapevole di sapere. La mia sapienza di regista, come quella dei miei attori, ha difficoltà a trovare parole adeguate. Le sue radici affondano nel fare. Per salvaguardare l’efficacia di questa sapienza quasi muta mi servo di luoghi comuni e neologismi. Ma quando questo linguaggio vuole spiegare troppo dà l’impressione di pochezza, retorica o incomprensibilità. In che urna – metodo o teoria – tramandare l’essenziale della mia sapienza-in-vita?
Perché tanta caparbietà e tanti sforzi? Che cosa ho voluto dal mio lavoro? L’esperienza mi ha reso consapevole del divario di percezione e comprensione tra chi ha creato l’opera e chi l’osserva. So che l’immaginazione è la più scientifica tra le facoltà umane poiché è la sola a intuire le analogie universali che i mistici chiamano corrispondenze. Soprattutto credo profondamente che l’essenza della vera azione sia il sats, impulso. È l’energia dell’attore che risveglia quella dello spettatore.
La mia difficoltà più grande? Ispirare all’attore azioni che si elevino alla dignità dell’enigma. Cerco di stabilire coincidenze tra l’esecuzione precisa dei dettagli fisici e sonori, e la pluralità del loro senso nella cornice di tempo e spazio in cui li mescolo: ossimoro nelle azioni e ambiguità nelle scene. Come primo spettatore, constato su me stesso l’effetto di evidenza e mistero che le azioni e gli oggetti assumeranno allo sguardo dello spettatore.
Il mio mestiere è solo saper fare, finzione, forma? Parole, intonazioni, silenzi, gesti, movimenti, immobilità sono un intreccio di forme percettibili. Ma il disegno di tutte queste migliaia di tensioni – le azioni della partitura dell’attore – non sono la forma. È la maniera di far percepire sensorialmente allo spettatore l’aldilà della forma.
Mi sono affaticato per un teatro impegnato? Le azioni dell’attore devono dire, non significare. Devono bastare a se stesse. Ogni azione vocale o fisica ha una sua potenza, un’individualità ed esistenza propria. L’energia dell’azione deve dire abbastanza di per sé per resistere all’aggressione delle idee e dei significati. Dovrebbe lasciare una traccia in quella parte che vive in esilio in ogni spettatore.
In un suo taccuino, il pittore Edgar Degas ha buttato giù queste linee: “Piron afferma che un gatto è un gatto. Io dico il contrario. Spesso una sola parola dice troppo. Che una garza sottile, senza nascondere le fattezze, veli il ritratto.” In questa formula è incastonato il mio sapere di regista. Nego quello che afferma il testo. Evito la tautologia mediante un agire elusivo. Ma pure eludendo debbo dire qualcosa del gatto in questione. Una sola parola può essere di troppo, e l’elusione rischia di diventare omissione. Debbo architettare una garza sottile, un artificio straniante che senza nascondere i tratti del gatto, veli il modo in cui lo sto evocando. Azioni e scene velate per rendere perspicace lo spettatore.
Può il teatro essere il cammino per un’altra forma di vita? Ogni forma di vita si manifesta in una struttura. In teatro, questa struttura è doppia: le particolari relazioni che caratterizzano l’ambiente di lavoro e il modo di comporre la drammaturgia di uno spettacolo. Dico drammaturgia, e penso a ossa sparse in attesa di un becchino compassionevole, di un giudizio universale o di un demiurgo – l’attore – che le riporti alla vita.
Cos’è la vita nel teatro? Le migliaia di tensioni viventi degli attori rivelano la vita della struttura drammaturgica ai sensi e alla memoria degli spettatori. Come regista sono-in-vita accompagnando l’attore nella crescita di questo organismo che pulsa, lo spettacolo. È l’orchestrazione di un flusso che tecnicamente scinde la totalità per far risaltare l’indipendenza delle scene. Ogni scena, a sua volta, si scompone per evidenziare l’indipendenza dell’intreccio delle azioni degli attori. Alla fine, anche questo intreccio scompare per dar risalto all’indipendenza delle azioni di ogni singolo attore, la sua energia che dice.
È il momento più intenso della simbiosi del regista con l’attore. Insieme operiamo sulla struttura vivente una successione di slittamenti: dalla luce all’oscurità, dall’ovvietà all’ambivalenza, dalla folla al deserto, dalla finzione alla reminiscenza, dall’umano all’insetto, dalla morte alla volgarità. Mescoliamo perizia tecnica e immagini che turbano. Tessiamo un ordito di trivialità, lirismo e fantasia con una profusione di dettagli – confusi, pigri, ubbriachi, frenetici – ma sempre reali.
Cos’è il teatro? È la scienza suprema del mistero della vita, accessibile anche ai diseredati della terra.

 

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